Big Mac alla campagna d’Italia 500 milioni da investire in tre anni

Milano. È uno tosto, Giacomo Bosia: ha iniziato a lavorare part-time in un Burghy alla fine degli anni ’80 e nel giro di 24 mesi era già direttore del ristorante.

E così la famiglia Cremonini, che allora gestiva la catena, gli offrì di diventare partner del primo ristorante in franchising aperto a Modena: “A quei tempi”, ricorda Bosia, “nemmeno si sapeva cosa fosse il franchising. Io dissi ai Cremonini che non avevo una lira in tasca, ma che ero disposto a mettercela tutta. Dopo una settimana mi dissero di sì: loro avrebbero gestito la contabilità e io mi sarei occupato del resto. Se le cose fossero andate bene, avremmo fatto a metà”.

Le cose andarono alla grande e in appena due anni il fatturato del ristorante balzò da 700 milioni di lire a 2,1 miliardi.

Una storia d’altri tempi, quella di Bosia? Mica tanto. Oggi Giacomo ha 45 anni ed è un imprenditore affermato: 31 milioni di euro di fatturato grazie a 500 collaboratori disseminati nei 14 McDonald’s (il gruppo che rilevò Burghy nel 1996) che gestisce nel Nord Est dell’hinterland milanese.

Ma soprattutto Bosia, nonostante la crisi, è un uomo tranquillo. Dice: “Nella ristorazione veloce lo spazio non manca. A patto, però, di far parte di un gruppo competitivo come McDonald’s. Lo sa che per venire incontro ai consumatori abbiamo abbassato da 1 euro a 90 centesimi il prezzo del nostro panino base”?

E poi rivela che sì, nel 2014 aprirà il suo quindicesimo “negozio”, come li chiamano alla McDonald’s.

La vicenda di Giacomo va inserita in una cornice più ampia. E cioè all’interno del piano triennale di investimenti lanciato nel Bel Paese dal primo gruppo mondiale della ristorazione veloce.

Fra il 2013 e il 2015, spiega Roberto Masi, AD di McDonald’s Italia, saranno investiti 500 milioni di euro nel Bel Paese per aprire un centinaio di nuovi ristoranti, assumendo circa 3.000 persone, in grande maggioranza giovani.

Si tratta di un’operazione ambiziosa, contestata a suo tempo dal segretario della Cgil Susanna Camusso, che sottolineava come le assunzioni fossero a tempo determinato. “Non è così”, precisa Masi, “oltre il 90% dei nostri dipendenti ha un contratto stabile. Nello specifico, il 70% degli assunti ha contratti part-time, in media di 24 ore a settimana (ma ci sono anche contratti di 12 o 30 ore settimanali), mentre il restante 30% è full-time, con un orario di 38 ore a settimana.

Quanto agli stipendi mensili, sono in linea con i contratti nazionali del turismo: 800 euro lordi (circa 630 netti) per il part-time di 24 ore, che in molti casi – precisa Masi – salgono a circa 950 lordi, pari a 750 netti, se si considerano gli straordinari o i festivi”.

In effetti, come sottolinea sempre Masi, i vertici internazionali del gruppo sono convinti che il fast food possa avere un futuro brillante nel nostro Paese.

Lo conferma la crescita del fatturato in Italia, che nel 2012 è stato di 990 milioni di euro (+2,3%), con l’apertura di una trentina di nuovi ristoranti e l’assunzione di oltre mille persone. E lo certifica il radicamento in Italia, testimoniato dalla presenza di 460 negozi e di 16.700 collaboratori.

Ma non è tutto. Perché i margini di crescita sono giudicati ampi. Basti pensare che in un Paese come la Francia, per molti versi paragonabile al nostro, McDonald’s ha circa 1.200 ristoranti, quasi il triplo dei nostri.

E allora? Come sostiene Masi, uno degli elementi di forza del gruppo è costruito da un modello di business basato sul franchising e sul ruolo chiave dei franchisee, gli affiliati.

Gente come Giacomo Bosia, o come Pietro Vadalà, imprenditore catanese che gestisce una dozzina di ristoranti (ne aprirà altri due nel corso del 2013), o come Stefano Govoni, che in provincia di Firenze ne controlla 13.

Ma anche come tanti piccoli imprenditori che hanno solo uno o due negozi. “Oggi abbiamo 123 franchisee”, spiega Masi, “e il nostro obiettivo è di arrivare a 140 partner entro il 2015. Insomma, stiamo cercando persone sveglie che abbiano alle spalle un’esperienza di gestione al di fuori del settore della ristorazione e che siano in grado di selezionare e gestire il personale, occuparsi oltre che del ristorante anche dell’amministrazione e della pubblicità locale.

Puntiamo sui piccoli imprenditori, sugli ex manager, sui lavoratori autonomi che abbiano voglia di impegnarsi e di rischiare del proprio.

Siamo interessati soprattutto a regioni come il Lazio, la Campania, il Veneto e il Piemonte, senza dimenticare il Friuli, la Puglia, le Marche e la Sicilia; ma ci sono zone scoperte anche nel resto d’Italia”.

Il modello proposto da McDonald’s è abbastanza semplice. L’investimento per aprire un nuovo negozio oscilla in media fra i 3 e i 3,5 milioni di euro (ma a Roma o a Milano il costo può salire fino a 6 milioni, e in aree periferiche scendere a 2,5 milioni): il gruppo copre i due terzi del costo, mentre il terzo rimanente, circa un milione, è a carico dell’affiliato.

“Noi consigliamo al franchisee di investire 400.000 euro cash e di ricorrere alle banche per i 600.000 euro restanti. In ogni caso, decide lui”.

Quanto alla casa madre, chiede delle royalties sul fatturato in una forbice compresa fra l’8 e il 13-14% dei ricavi. “Il fatturato medio di un negozio”, dice Masi, “è di 2,3 milioni e il rientro dell’investimento è previsto fra il quarto e il quinto anno, mentre il cash flow è dell’8-10%. Ovviamente un gestore bravo può fare di più. E noi cerchiamo quelli bravi”.